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  • Riflessi di Una Mente

LAVORO: DIRITTO O SCHIAVITÙ?



Nella Costituzione della Repubblica Italiana si possono leggere importanti articoli riguardanti il lavoro tra cui l'art. 1: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro", l'art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società", l'art. 36: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi".


Il lavoro, dunque ha un'importanza fondamentale nella vita di ognuno, non solo per soddisfare le esigenze materiali della famiglia, ma anche per contribuire alla crescita economica e morale della collettività.


Ogni individuo dovrebbe svolgere una mansione per scelta, per vocazione e inclinazione, coerente con il percorso di studi, esperienze e motivazioni. Sempre più spesso ciò non è possibile a causa di congiunture sfavorevoli alle aspirazioni del lavoratore. Mercato del lavoro, crisi finanziarie, globalizzazione, delocalizzazione, competitività e altri fattori concorrono alla corsa al ribasso, in barba alle tutele e alle garanzie faticosamente conquistate nel corso degli anni.


I dati allarmanti sulla disoccupazione fanno orrore ad un paese che si annovera tra i più civili ma con delle contraddizioni tutt'altro che semplici.

Da un lato, si cerca di rottamare e di pre-pensionare una classe impiegatizia considerata anziana, dall'altro si allunga l'età pensionabile obbligando intere categorie di lavoratori a svolgere attività, anche disagevoli e pesanti, ad un passo dalla tomba. Si invitano i già pochi laureati, specializzandi, dottorandi a cercare impieghi anche di basso profilo e di paga non in linea con le proprie capacità pur di non stare a casa, ma molte volte sono gli stessi datori di lavoro a scartarli perché troppo titolati, specializzati o esperti in settori non attinenti. Se ad un aspirante lavoratore si richiede di non precludersi alcuna strada perché il posto fisso non esiste più e bisogna adattarsi a lavori variegati nel tempo, è anche vero che molte porte vengono sbattute in faccia proprio perché si hanno troppe competenze ed esperienze diverse tra loro che disorientano chi è chiamato a selezionare il personale.

I giovani si trovano in bilico tra aspettative e disillusioni, ritenuti dai selezionatori, per un verso troppo esigenti, per un altro, svogliati.


Chi sceglie un iter di studio per diventare quello per cui si ha studiato, dovrebbe avere l'occasione e l'opportunità di riuscirvi. Troppo spesso si pretende dalle nuove generazioni uno sforzo che va ben oltre il comprensibile. Si ascoltano i politici, gli statisti, i professionisti del settore i quali, tramite dibattiti televisivi, organi di stampa, pubblicazioni di libri, sostengono la reale necessità di accettare qualsiasi lavoro venga offerto, di abbandonare le ambizioni, di considerare gli anni scolastici, spesi in sacrificio di tempo, energia e denaro, più un mero bagaglio culturale personale che una prospettiva lavorativa.


In tempi di crisi globale non si può pretendere di vivere dei propri sogni e progetti ma ciò non significa dover rinunciare alla propria attitudine per un sistema che andrebbe cambiato.


Chiedere ad un laureato in medicina o in filosofia o in architettura di “sporcarsi le mani” accettando di fare le pulizie negli uffici o di arruolarsi in laboratori di artigianato o di fare il cassiere in un supermercato è degradante non perché un lavoro sia migliore di un altro ma per il chiaro motivo che non è formato per quella tipologia di mansioni.


Il cosiddetto “Sono un biologo ma nel frattempo lavoro in un call center” dovrebbe essere una parentesi momentanea, non perpetuata all'infinito. L'emigrante costretto all'estero per un futuro dignitoso è un fatto sconvolgente per la seconda nazione più industrializzata al mondo. La fuga di cervelli non accenna a diminuire, eppure si esige dalle brillanti menti, patrimonio incalcolabile di uno Stato, di sentirsi appagati nell'adoperarsi in un fast-food perché al momento non c'è altra offerta.


Aspettarsi che un aspirante ingegnere o qualsiasi altro “dottore” faccia l'operatore ecologico o l'operatore scolastico piuttosto che stare inoccupato è come ritenere giusto che tutte le facoltà universitarie che sfornano lauree non spendibili sul mercato siano inutili e vengano chiuse.


Obbligare una persona ad accettare quello che viene sminuisce potenzialità, voglia ed entusiasmo. Se è vero che le esperienze lavorative arricchiscono umanamente e riempiono i curricula scarni di esperienze, è anche vero che non si può continuare a vivere di lavoretti precari e saltuari, di stage non retribuiti, di contratti forse rinnovati, in attesa di poter, un giorno lontano, dar vita alla professione agognata.


La paura dell'invasione immigratoria di manodopera a basso costo non può essere uno strumento di ricatto per chi ha di sé un'immagine rispettabile e non usufruibile a buon mercato.


Chi opera volontariamente con retribuzione inadeguata o addirittura assente non può e non deve essere portato ad esempio. Le libere scelte vanno accolte, non certo strumentalizzate per fare del lavoratore uno sfruttato senza diritti e salvaguardia di sorta.


Il divario tra maschi e femmine, poi, è un fenomeno socialmente inaccettabile. Se per un uomo non avere un impiego idoneo al sostentamento per sé e per la propria famiglia è considerato un fallimento personale, per la donna non è ritenuto così importante.

Le ragazze che non trovano lavoro possono sempre ripiegare sul matrimonio e sul figliare e spendere il loro tempo dietro le faccende domestiche, gratis. D'altro canto, si sentono spinte a contribuire economicamente a scapito della salute, dell'equilibrio fisico-psichico, della famiglia stessa. A parità di ruolo, mansione e orario, le donne, inspiegabilmente, percepiscono redditi inferiori rispetto ai colleghi maschi con la conseguenza che faticano di più senza ottenere riconoscimenti, opportunità di carriera, promozioni come meriterebbero. In poche parole, vengono usate maggiormente per la loro spiccata predisposizione al multitasking in cambio di flessibilità, mobilità e straordinari non pagati.


Molte di loro, piuttosto che sfigurare di fronte alle amiche stacanoviste, preferiscono sopportare estenuanti turni di lavoro, vedere calpestare i propri diritti, vivere di ingiustizie e soprusi per portare a casa una misera paga di lacrime e sudore anziché svolgere la sottovalutata, deplorevole e antiquata professione di donna di casa.


“Il mio stipendio basta appena per pagare la baby-sitter”, allora perché ostinarsi a lavorare per un magro bottino destinato ad altri quando si potrebbe avere maggiore soddisfazione e gratificazione a crescere il proprio figlio?


Lo status di lavoratrice sfruttata è più forte di quello di insoddisfacente moglie e/o madre, ma a quale prezzo?


La nascita di nuovi centri e stabilimenti, come ogni novità, sono acclamati a gran voce poiché offrono posti di lavoro e sono tutti felici, datori e dipendenti. Poco importa se al profitto aziendale non corrispondono stipendi più alti a chi sacrifica domeniche e festività, riposi e ferie per la ditta. La disponibilità “sempre e dovunque” fa del volenteroso lavoratore rassegnato non una persona con una vita privata, bensì un'unità produttiva da spremere fino all'ultimo e da sostituire, all'occorrenza, in ogni momento.

Se questa è dignità lavorativa non si capisce cosa ci sia di tanto degno nello svolgere un incarico non voluto, non desiderato, non amato. Un'attività di persone costrette per necessità e non per passione ne perde in qualità, professionalità e competenza.

Chi si presta a questa follia del “piuttosto di niente” non apporta beneficio alla comunità, non opera per il bene suo e dei propri cari. L'accontentarsi, come il darsi da fare, è una dote che non ha nulla a che vedere con le richieste fuorvianti e opportunistiche di chi non chiede altro che sfruttare a proprio piacimento la forza lavoro per trarre dei profitti di cui solo lui potrà godere.


Ai datori di lavoro e ai lavoratori, complici oppure no, la Costituzione insegna che il lavoro è un diritto, nobile di qualità e di titolo.


RIFLESSIONI

La riflessione di questo articolo riguarda il lavoro. Come primo passo per immettersi nel mercato del lavoro è inviare il proprio curriculum per far sapere al selezionatore che si è disponibili per il profilo ricercato. Quindi, è importante che sia scritto bene, che faccia una buona impressione e che il contenuto sia valido e motivante. Scrivere un curriculum è di per sé già un lavoro perché richiede tempo, dedizione e una strategia efficace per distinguersi da una moltitudine di competitori.


Com’è scritto il tuo curriculum vitae?


👉 Leggi la pagina del Diario di una vita consapevole riguardo a "La vita non è solo lavoro"


Non tutti possono lavorare comodamente da casa e recarsi in ufficio tutti i giorni per 8 ore al giorno, e confrontarsi con le stesse persone e mansioni monotone e ripetitive può rivelarsi molto deprimente. Lavorare felici? Si può.


🎬 Guarda il video "Come lavorare felicemente" e adotta gli 8 accorgimenti descritti

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