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LAVORO: DIRITTO O SCHIAVITÙ?

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    Riflessi di Una Mente
  • 28 apr 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 12 mar



Nella Costituzione della Repubblica Italiana si possono leggere importanti articoli riguardanti il lavoro tra cui l'art. 1: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», l'art. 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», l'art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi».

Il lavoro, dunque ha un'importanza fondamentale nella vita di ognuno, non solo per soddisfare le esigenze materiali della famiglia, ma anche per contribuire alla crescita economica e morale della collettività.

Ogni persona dovrebbe scegliere una professione in base alle proprie passioni, inclinazioni e percorsi di studio, esperienze e motivazioni. Tuttavia, sempre più frequentemente questo non è possibile a causa di circostanze che ostacolano le ambizioni dei lavoratori. Il mercato del lavoro, le crisi economiche, la globalizzazione, la delocalizzazione, la competitività e altri elementi contribuiscono a una spirale discendente, ignorando le tutele e le garanzie ottenute con grande sforzo nel tempo.

I dati allarmanti sulla disoccupazione fanno orrore a un paese che si annovera tra i più civili, ma con delle contraddizioni tutt'altro che semplici.

Da un lato, si cerca di rottamare e di prepensionare una classe impiegatizia considerata anziana, dall'altro si allunga l'età pensionabile, obbligando intere categorie di lavoratori a svolgere attività, anche disagevoli e pesanti, a un passo dalla tomba. Si incoraggiano i già pochi laureati, specializzandi e dottorandi a cercare lavoro anche di basso profilo e con salari non all'altezza delle capacità per evitare di restare a casa. Tuttavia, spesso sono gli stessi datori di lavoro a scartarli, ritenendoli troppo qualificati, specializzati o esperti in settori non pertinenti alla figura ricercata.

Se a un aspirante lavoratore si richiede di non precludersi alcuna strada perché il posto fisso non esiste più e bisogna adattarsi a lavori variegati nel tempo, è anche vero che molte porte vengono sbattute in faccia proprio perché si hanno troppe competenze ed esperienze diverse tra loro che disorientano chi è chiamato a selezionare il personale.

I giovani si trovano in bilico tra aspettative e disillusioni. Sono ritenuti dai selezionatori, per un verso troppo esigenti, per un altro svogliati.

Chi decide di intraprendere un percorso di studi per realizzare le proprie aspirazioni professionali dovrebbe avere l'opportunità di farlo. Troppo spesso si pretende dalle nuove generazioni uno sforzo che va ben oltre il comprensibile. Si ascoltano politici, esperti e professionisti che, attraverso dibattiti e pubblicazioni, affermano la necessità di accettare qualsiasi lavoro, di rinunciare alle proprie ambizioni e di considerare gli anni di studio come semplici investimenti culturali piuttosto che come un passo verso una carriera futura.

In tempi di crisi globale non si può pretendere di vivere dei propri sogni e progetti, ma ciò non significa dover rinunciare alla propria attitudine per un sistema che andrebbe cambiato.

Richiedere a un laureato in medicina, filosofia o architettura di "sporcarsi le mani", accettando di pulire gli uffici, lavorare in laboratori artigianali o fare il cassiere in un supermercato è considerato degradante, non perché un lavoro sia superiore a un altro, ma perché non è preparato per quel tipo di attività.

«Sono un biologo ma lavoro in un call center» dovrebbe essere solo una parentesi temporanea. È scioccante che un emigrante debba lasciare il paese per un futuro dignitoso in una delle nazioni più industrializzate. La fuga di cervelli continua, ma si richiede a queste menti brillanti di accontentarsi di lavori come quelli in un fast-food per mancanza di alternative.

Aspettarsi che un ingegnere o un dottore lavori come operatore ecologico o scolastico invece di restare disoccupato è come pensare che le università che offrono lauree poco spendibili siano inutili e debbano chiudere.

Obbligare una persona ad accettare quello che viene sminuisce potenzialità, voglia ed entusiasmo. Se è vero che le esperienze lavorative arricchiscono umanamente e riempiono i curricula scarni di esperienze, è anche vero che non si può continuare a vivere di lavoretti precari e saltuari, di stage non retribuiti, di contratti a termine, in attesa di poter, un giorno lontano, dar vita alla professione agognata.

La paura di un'invasione di immigrati con manodopera a basso costo non può essere usata come strumento di ricatto da parte di chi ha una reputazione rispettabile e non è disponibile a lavorare a prezzi stracciati.

Chi opera volontariamente con retribuzione inadeguata o, addirittura, assente non può e non deve essere portato ad esempio. Le libere scelte vanno accolte, non certo strumentalizzate per fare del lavoratore uno sfruttato senza diritti e tutele di sorta.

Il divario tra maschi e femmine, poi, è un fenomeno socialmente inaccettabile. Se per un uomo non avere un impiego idoneo al sostentamento per sé e per la propria famiglia è considerato un fallimento personale, per la donna non è ritenuto così importante.

Le ragazze che non trovano lavoro possono sempre ripiegare sul matrimonio e sul figliare e spendere il loro tempo dietro le faccende domestiche, gratis. D'altro canto, si sentono spinte a contribuire economicamente a scapito della salute, dell'equilibrio fisico-psichico, della famiglia stessa. A parità di ruolo, mansione e orario, le donne, inspiegabilmente, percepiscono redditi inferiori rispetto ai colleghi maschi con la conseguenza che faticano di più senza ottenere riconoscimenti, opportunità di carriera, promozioni come meriterebbero. In poche parole, vengono usate maggiormente per la loro spiccata predisposizione al multitasking in cambio di flessibilità, mobilità e straordinari non pagati.

Molte di loro, piuttosto che sfigurare di fronte alle amiche stacanoviste, preferiscono sopportare estenuanti turni di lavoro, vedere calpestare i propri diritti, vivere di ingiustizie e soprusi per portare a casa una misera paga di lacrime e sudore, anziché svolgere la sottovalutata, deplorevole e antiquata professione di donna di casa.

«Il mio stipendio basta appena per pagare la retta dell'asilo nido», allora perché ostinarsi a lavorare per un magro bottino destinato ad altri, quando si potrebbe avere maggiore soddisfazione e gratificazione a crescere il proprio figlio?

Lo status di lavoratrice sfruttata è più forte di quello di insoddisfacente moglie e/o madre, ma a quale prezzo?

La nascita di nuovi centri e stabilimenti, come ogni novità, sono acclamati a gran voce, poiché offrono posti di lavoro e sono tutti felici, datori e dipendenti. Poco importa se al profitto aziendale non corrispondono stipendi più alti e a chi tocca sacrificare domeniche e festività, riposi e ferie per la ditta. La disponibilità “sempre e dovunque” fa del volenteroso lavoratore rassegnato non una persona con una vita privata, bensì un'unità produttiva da spremere fino all'ultimo e da sostituire, all'occorrenza, in ogni momento.

Se questa è dignità lavorativa non si capisce cosa ci sia di tanto degno nello svolgere un incarico non voluto, non desiderato, non amato. Un'attività di persone costrette per necessità e non per passione ne perde in qualità, professionalità e competenza.

Chi si presta a questa follia del “piuttosto di niente” non apporta beneficio alla comunità, non opera per il bene suo e dei propri cari. L'accontentarsi, come il darsi da fare, è una dote che non ha nulla a che vedere con le richieste fuorvianti e opportunistiche di chi non chiede altro che sfruttare a proprio piacimento la forza lavoro per trarre dei profitti di cui solo lui potrà godere.

Ai datori di lavoro e ai lavoratori, complici oppure no, la Costituzione insegna che il lavoro è un diritto, nobile di qualità e di titolo.



RIFLESSIONE

La riflessione di questo articolo riguarda il lavoro. Come primo passo per immettersi nel mercato del lavoro è inviare il proprio curriculum per far sapere al selezionatore che si è disponibili per il profilo ricercato. Quindi, è importante che sia scritto bene, che faccia una buona impressione e che il contenuto sia valido e motivante. Scrivere un curriculum è di per sé già un lavoro, perché richiede tempo, dedizione e una strategia efficace per distinguersi da una moltitudine di competitori.


Com’è scritto il vostro curriculum vitae?



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👉 Leggete la pagina del "Diario di una vita consapevole" riguardo a "La vita non è solo lavoro"


Non tutti possono lavorare comodamente da casa. Recarsi in ufficio tutti i giorni per otto ore al giorno e confrontarsi con le stesse persone e mansioni monotone e ripetitive può rivelarsi molto deprimente. Lavorare felici? Si può.


🎬 Guardate il video "Come lavorare felicemente" e adottate gli otto accorgimenti descritti.


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