
Riflessi di Lydia
Viviamo in una società in cui spesso ci lasciamo ingannare dalle apparenze. La storia di un giovane uomo, ritenuto da coetanei e vicini di casa un “bravo ragazzo”, rappresenta un esempio emblematico di come le percezioni superficiali possano celare comportamenti problematici e, talvolta, persino gravi atrocità.
Come può un giovane, considerato da tutti un “bravo ragazzo”, macchiarsi di un delitto atroce tra le mura domestiche? Non sono più così rare le notizie di cronaca nera che raccontano l’aumento della violenza tra ragazzi e giovani uomini, una tendenza statisticamente più rilevante rispetto a quella tra ragazze e giovani donne.
In questo contesto, è fondamentale interrogarsi su cosa significhi davvero essere un “bravo ragazzo” e quali valori stiamo trasmettendo alle nuove generazioni. Un figlio può rappresentare l’ideale che ogni genitore desidera, anche se la sua vita non è altrettanto esemplare?
Le sue serate trascorse, ad esempio, a imbrattare muri, causare risse, vandalizzare, bullizzare, importunare i passanti, ubriacarsi e fumare con gli amici, schiamazzando sulle panchine della piazza a ridosso delle case e disturbando la quiete pubblica, sono in netto contrasto con l’immagine che gli altri hanno di lui.
Questi comportamenti, che dovrebbero destare allarme, vengono spesso giustificati come semplici atti di ribellione giovanile, relegando il problema alla sfera dell’adolescenza o della post-adolescenza. Eppure, sono spesso la manifestazione di un disagio profondo, che può sfociare in atti di violenza o addirittura in atrocità.
Il fatto che un giovane possa essere percepito come “buono” da vicini e conoscenti mentre compie azioni criminali, solleva interrogativi inquietanti sulla nostra capacità di riconoscere i segnali di disagio sociale. In che modo il concetto di “bravura” si è ridotto a una mera facciata, capace di nascondere comportamenti distruttivi?
Qui entra in gioco il ruolo dell'educazione e dei modelli di riferimento. I ragazzi apprendono comportamenti attraverso l’imitazione degli adulti, delle icone mediatiche e, soprattutto, del contesto sociale in cui vivono. Quando bullismo e superficialità vengono normalizzati sui social network, è evidente che qualcosa non funziona nel nostro sistema educativo e nei valori che trasmettiamo.
Preoccupa anche la mancanza di responsabilità nel giudicare le azioni altrui. La tendenza a minimizzare comportamenti problematici, liquidandoli come “cose da ragazzi”, alimenta un circolo vizioso che può sfociare in situazioni estreme.
È essenziale promuovere una cultura della critica costruttiva, che insegni ai giovani a riconoscere e gestire le proprie emozioni, a prendere coscienza delle conseguenze delle proprie azioni e a sviluppare un autentico senso di responsabilità sociale.
Per rompere questo ciclo, dobbiamo ripensare non solo il modo in cui definiamo il “bravo ragazzo”, ma anche come comunichiamo e trasmettiamo i valori fondamentali di rispetto, empatia e integrità. Dobbiamo incoraggiare i giovani a esprimere sé stessi in modo sano, a costruire relazioni autentiche e a comprendere che il valore di una persona non si misura solo attraverso la reputazione sociale, ma soprattutto attraverso le proprie azioni e scelte morali.
Il fenomeno del “bravo ragazzo” che compie atti atroci è sintomatico di un problema sociale più profondo. È un segnale che ci invita a riflettere seriamente su come ci relazioniamo con le nuove generazioni e quali modelli offriamo loro. Solo attraverso un’educazione consapevole e una comunicazione aperta potremo sperare di formare individui capaci di distinguere tra ciò che è realmente giusto e ciò che, purtroppo, viene tollerato in nome di una “normalità” che non esiste.
