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Ma quanto fastidiosi sono gli inglesismi?

Riflessi di Lydia

Esiste una folta schiera di chi, ascoltando e leggendo ogni due parole italiane, una straniera "tanto per...", storce il naso e accusa un certo fastidio (eppure in Italia di termini in inglese e francese, latino, ecc. siamo sommersi).

La comunicazione è il percorso che un messaggio percorre dal mittente verso il ricevente, il quale intuisce, percepisce e capisce, alla sua maniera, tale messaggio, che non necessariamente è ciò che il mittente ha voluto esprimere.

 

Tenendo conto di ciò, la lingua evolve, le contaminazioni esistono ovunque, il lessico muta e si adatta all’attualità dei tempi, le nuove generazioni inventano, storpiano, abbreviano, fondono, miscelano i termini.

 

È sempre più usuale prendere in prestito forestierismi per scherzo, per simpatia, per ridere, per abitudine, per darsi delle arie o un tono, tanto "così fan tutti", quasi senza farci caso, senza prendersi del tempo per ragionarci su, in ogni luogo e situazione: al lavoro, a scuola, ad un incontro, persino a casa, in messaggistica, su internet, tra amici, parenti, colleghi, conoscenti, dando per scontato che l’interlocutore, a prescindere, apprezzi e sappia cosa si intenda.

 

Mi prendo un momento di refresh, ho un sacco di task, faccio un break, farò un recap, ho la vita piena di glamour, prendo la vita in maniera easy, ho tanti momenti down, non faccio binge watching, faccio work out, No matter what!, non c'è un outcome positivo, amo il genere crime, si entra in un loop, non sono un’esperta disclaimer, mi sento più comfortable, vado in inevitabile burnout, e così via.

 

È tipica dell’Essere umano la presunzione.


Sì, perché chi parla o scrive come gli pare e piace, scarica addosso la responsabilità all’altro di comprendere alla perfezione ciò che sta dicendo o scrivendo, incurante se ciò davvero avvenga.

 

Per quale ragione, infatti, il destinatario dovrebbe essere investito di locuzioni a lui sconosciute, impegnarsi a parafrasarle, interpretarle, tradurle, fare finta di conoscerle per non sembrare indiscreto nel domandare cosa significhi, con il rischio che l’esterofilo di turno lo schernisca o lo accusi di essere un ignorante?


 

Fraintendimenti, travisamenti, giudizi affrettati, incomprensioni, mal interpretazioni si insinuano già tra chi interagisce avvalendosi dello stesso linguaggio, figuriamoci se di mezzo vi sono parole o frasi in una lingua straniera che non è dato per certo si debba conoscere per forza!

 

Al contrario, a quale titolo valersene a sostituzione di quelle italiane?

Il dizionario di lingua italiana è carente? Proprio no.

 

Vivendo in Italia, tra italiani, di madrelingua italiana, è sciocco il ricorso indiscriminato, esagerato ed eccessivo a parole straniere.

Risulta essere, oltre ad una pratica odiosa, molte volte, faticosa perché volta a sforzarsi di capire, tradurre e interpretare il significato di tali terminologie che non tutti hanno il dovere o l’obbligo di sapere.

 

Si tratta di una forma di RISPETTO e di RESPONSABILITÀ.

 

Si dà per scontato che, ieri il francese, oggi l'inglese, domani, forse, chissà, il mandarino, si debba apprenderlo. Si getta egoisticamente il peso del proprio metro di giudizio sull'altro, si ha la supponenza che, dal momento che sia normale inserire nel proprio dizionario parole non italiane, lo si faccia indistintamente e disinvoltamente per tutti gli usi e consumi.

 

Ogni tanto accade che io stessa possa cadere nell'errore di servirmi di parole prese a prestito da altre lingue perché già socialmente acquisite, di dominio pubblico (specie in ambito professionale e, comunque, non più del dovuto e seguite dalla traduzione immediata in italiano), ma non trovando corretto e giusto:


- scagliare la responsabilità dell’utilizzare parole a me più congeniali addosso al mio destinatario;

- non porre la dovuta attenzione, cura e rispetto nei suoi riguardi;

- aspettarmi che sia lui o lei a decifrare il mio linguaggio, a tradurre termini che, forse, non conosce (oppure conosce ma che non vede il bisogno o non ha voglia di attivare il suo traduttore automatico);

- far interpretare, alla meno peggio, il mio ragionamento viziato da parole che obbligano il suo cervello ad un lavoro extra di decodifica;


allo stesso modo, lo sforzo, l’accortezza, la moderazione, devono valere anche nei miei confronti.



Non si tratta di una manifestazione dell'ego, di chissà quale supremazia d'intelligenza, di voler aver ragione a tutti i costi o di ignoranza, pigrizia o chiusura mentale, provincialismo, negazione o ribellione o resistenza all'uso improprio delle lingue straniere, patriottismo estremo. Dopotutto ci troviamo in Italia, tra italiani (nella maggioranza dei casi), dunque è naturale parlare e scrivere in italiano (che è pure una bellissima lingua da difendere e preservare).

 

Una parola, un modo di dire, un titolo, una definizione, una battuta in inglese, lanciati qua e là, laddove si renda necessario, scivolano via e si perdonano ma il "Troppo stroppia" e quando ciò accade, è proprio insopportabile.

 

Mi è capitato frequentemente di intavolare un dialogo e ad assistere ad una conversazione tra amici, colleghi, ad un dibattito, ad una conferenza, di frequentare un seminario, di seguire un'intervista, un podcast (=trasmissione radio diffusa via Internet), di guardare un programma televisivo o in rete, di leggere articoli e prendermi la briga di correggere gli errori dei vocaboli stranieri utilizzati da altri, di prestare maggiore attenzione al senso di una frase citata in diversa lingua, di andare a cercare sul glossario o digitare sul traduttore i cosiddetti "falsi amici" (termini che nella morfologia sono molto somiglianti alle parole della propria lingua madre, ma hanno significati totalmente differenti), di fare gincane mentali tra le lingue, di mettermi nei panni di chi l'inglese, il francese, il latino, lo spagnolo non li ha mai studiati, di chiedermi, per esempio, quale utilità abbia fare uso del termine fashion anziché moda, così Yes-sss al posto del semplice Sì, misunderstanding invece di malinteso, gossip piuttosto che pettegolezzo e così via.


Cosa cambia?


Il termine inglese è più “figo”?

Rende chi lo adopera più saputone? Trattasi di persona più erudita?

Io, francamente, non ne comprendo la funzionalità.

 

Si tratta, ovviamente, di una mia opinione ragionata del tutto personale, perciò fallibile, discutibile, confutabile.


Io mi rendo consapevole nella misura in cui io scelgo (perché ho fiducia del mio giudizio, allineato ai miei valori) di agire, reagire e interagire con me stessa e con gli altri.


Miei cari lettori, potete affermare altrettanto?

Quali termini in lingua straniera utilizzate maggiormente?

Vi rendete consapevoli di come comunicate?

Cosa e come cambierebbe in voi il vostro modo di esprimervi?

Come reagisce il vostro interlocutore all'uso delle parole straniere?

Ci avete mai fatto caso?


Riflettete, Valutate, Agite!


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